A cura di tiziano rossetto
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di Tiziano Rossetto
Tiziano Rossetto Circa due secoli separano l’immaginario della montagna quale luogo ostico ed inaccessibile, popolato da uomini rudi, all’idea delle vette fonte di meraviglia e studio scientifico ed infine al costume dei soggiorni estivi trascorsi su floridi pendii, percorsi da talentuosi pittori e da raffinati “madame” e “monsù” della Belle Epoque. Tra il Settecento e gli inizi del Novecento si compie dunque un’evoluzione culturale, sociale ed artistica che conduce la nobiltà e la borghesia rampante dalla pianura in direzione di maggiori altitudini e contribuisce, per i numerosi abitanti nelle alte valli, al riscatto di un’esistenza di sacrificio verso una vita qualificata dall’imprenditorialità turistica. “Noi abbiamo nelle Valli di Lanzo una Svizzera italiana dove in fatto di bellezze, di cascate, di laghetti, d’alpi verdeggianti, di annose selve, d’immense ghiacciaje poco ci resta a desiderare” (Sara Louise de Rothschild, 1836). Muta altresì nel tempo la percezione e la rappresentazione artistica dell’ambiente montano, come testimoniano le opere della mostra “Montagne. Mito e fortuna delle Alpi occidentali tra Ottocento e Novecento” allestita presso il Museo Civico Alpino “Arnaldo Tazzetti” di Usseglio a cura di Luca Mana, Antonio Musiari, Alberto Tazzetti ed Emanuela Lavezzo. Nel catalogo s’incontrano poliedrici, significativi testi a firma di Paola Gribaudo, Edoardo Di Mauro, Enrico Zanellati, Eugenio Garoglio ed Alessia Maria Giorda, oltreché dei curatori dell’esposizione. La collaborazione tra Museo “Tazzetti”, Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto s’inserisce nell’ampio progetto di valorizzazione della cultura alpina, peculiare del museo ussegliese. La prima tra le quattro sezioni tematiche della mostra si sofferma sul periodo di fine Settecento, epoca in cui nacque l’alpinismo accanto ai primi studi scientifici di botanica e geologia. Provenienti in prevalenza dal Museo Accorsi-Ometto, opere di Angelo Maria Cignaroli, Giuseppe Pietro Bagetti e Domenico Ferri rappresentano una natura imponente e “meravigliosamente terrificante”. Napoleone, che ben comprese l’importanza dei trasporti attraverso i passi montani, viene invece ritratto in un “fixé sous verre” da Giovanni Migliara. Una visione più realistica è offerta dalla litografia raffigurante il ponte di Forno di Lemie realizzata da Denina su disegno di Luigi Francesetti di Mezzenile e dalle opere ottocentesche della seconda sezione. La vasta veduta dipinta da Angelo Beccaria proviene dalla Pinacoteca dell’Accademia Albertina; Lorenzo Delleani avvicina poi l’osservatore alle sponde del Lago Mucrone mentre Giovanni Battista Carpanetto coglie personaggi di condizioni sociali differenti nella frazione “Margone” di Usseglio e “Su ai Tornetti di Viù”. I Tornetti vengono immortalati ancora da Filiberto Petiti nella terza parte della mostra dedicata al Divisionismo: Matteo Olivero, Cesare Maggi, Andrea Tavernier (il cui dipinto “Mattino autunnale” giunge dalla Collezione Intesa Sanpaolo) scindono e ricompongono la luce fra boschi e vette, mentre Angelo Garino ritrae, sulla strada del fondovalle, una pittoresca “Processione a Balme”. Nelle ultime sale espositive è dato spazio ad opere del Novecento: alle acuminate guglie rocciose scrupolosamente descritte da Angelo Abrate si contrappone il tondeggiante profilo del “Charforon” delineato da Renato Chabod. Allievo di Delleani ed amante sia delle Valli di Lanzo sia di Courmayeur, Alessandro Poma è presente con due lavori a pastello, caratteristicamente al limite del figurativo; di Giuseppe Sauli d’Igliano compaiono invece due paesaggi ed una “Processione”, di gusto ancor verista, sempre ambientati ad Usseglio. L’esposizione costituisce un ottimo risultato che sottolinea quanto la sinergia fra diverse istituzioni possa promuovere il territorio, in special modo quello montano, per mezzo di una concatenazione di percorsi culturali. Angelo Garino - Processione a Balme - 1898
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Tiziano Rossetto Spesso attraversiamo e guardiamo la città, ma solamente lo studio della sua genesi ci permette di comprenderne gli aspetti poco evidenti che talvolta sfuggono ad una considerazione superficiale.
Valigie di cartone e case di cemento –Edilizia, industrializzazione e cantiere a Torino nel secondo Novecento, edito da CELID - 2015, con prefazione del compianto Pier Giovanni Bardelli, introduzione di Fabrizio Astrua, testi di Emilia Garda, Marika Mangosio, Caterina Mele e fotografie di Carlo Ostorero (docenti presso il Politecnico di Torino), offre la possibilità di esaminare alcuni quartieri periferici torinesi. L'edilizia residenziale pubblica e l’“housing sociale” sono temi attuali, di crescente importanza in un’epoca nella quale grandi quantità di persone emigrano da Paesi politicamente ed economicamente in difficoltà. Pare dunque necessario che tecnici ed amministratori imparino dagli errori del passato -nonché dalle esperienze positive- allo scopo di favorire lo sviluppo armonico delle città ed evitare che porzioni territoriali e di popolazione cadano nell’isolamento. Il libro si apre con la storia della prefabbricazione in Europa nel dopoguerra; Fabrizio Astrua distingue e descrive i sistemi costruttivi a ciclo chiuso, a ciclo aperto e l’industrializzazione-razionalizzazione del processo edilizio. Esempi di realizzazioni inglesi e francesi, datate anni Settanta, vengono citati e confrontati con la coeva situazione italiana, in ritardo rispetto alle realtà d’oltralpe; un caso studio di edilizia residenziale piemontese conclude l’introduzione. Caterina Mele sottolinea innanzitutto la differenza tra “industrializzazione” e “prefabbricazione”, dunque delinea i mutamenti storici e produttivi che negli ultimi due secoli hanno condotto alla moderna prefabbricazione. L’autrice cita alcuni protagonisti della sperimentazione nel secondo dopoguerra, le ditte titolari dei brevetti maggiormente utilizzati, quindi spiega i piani d’intervento INA Casa e Gescal ed infine pone in luce princìpi e leggi che promossero -tra il 1945 e gli anni Settanta- la costruzione di notevoli quantità di alloggi e “megaquartieri” (teoricamente autosufficienti). Questi edifici furono in parte oggetto di programmi di recupero e riqualificazione negli anni Novanta. E’ decritto nel capitolo seguente il “boom” edilizio -di poco successivo all’adozione (1956) del piano urbanistico commissionato a Rigotti e Molli Boffa- avvenuto negli anni Sessanta. Lo sviluppo della FIAT richiamò grandi masse di popolazione e di conseguenza si venne a creare una diffusa emergenza abitativa. Si ripercorre quindi l’evoluzione del territorio torinese, ci si sofferma sui quartieri popolari nati velocemente quale risposta alle sopravvenute istanze sociali e vengono approfondite le scelte tecnologiche adottate. Emilia Garda correla le soluzioni tecniche alla sensibilità sociale, all’economia ed analizza per quali ragioni la progettazione della casa e degli arredi abbia progressivamente privilegiato un modello abitativo razionalista e moderno rispetto ad un uso di tipo “borghese”. Il discorso è poi focalizzato sui singoli quartieri di “edilizia sociale industrializzata”: una scheda riassuntiva anticipa ogni descrizione, che riguarda storia, progettisti, tecnologie, impostazione urbanistica, caratteristiche formali, imprese di costruzione ed inoltre osservazioni e considerazioni dell’autrice. Marika Mangosio esamina invece i procedimenti costruttivi. Negli anni Sessanta, poiché la forza lavoro immigrata a Torino era impegnata in gran parte nell’industria, la prefabbricazione fu la soluzione più conveniente, nell’ottica di contenere sia la manodopera, sia i costi. Per ogni brevetto di prefabbricazione impiegato, vengono approfonditi l’origine, l’impresa concessionaria, la caratterizzazione tecnologica ed i quartieri della città in cui il metodo fu utilizzato. Nelle nuove aree urbane spesso non furono realizzati i servizi e gli spazi di relazione previsti dai piani: Carlo Ostorero conclude quindi il volume con un Atlante fotografico in cui sono ritratte alcune delle Chiese che assunsero il compito di centri per l’aggregazione sociale. Corredano il testo numerose immagini, schemi tecnici ed una ricca bibliografia. Tiziano Rossetto Torino ha fama di essere una città magica, oscura e misteriosa; preziosa e riservata, non ama apparire: dietro ai portoni spesso si nascondono splendori ignoti a molti. Palazzo Saluzzo Paesana si presenta all’esterno come uno dei tanti nobili edifici con impianto a corte presenti nell’urbe che fu capitale del regno. Varcato l’ingresso, l’ospite si sente avvolto, invitato dalle logge a salire gli scaloni e, avviandosi di salone in salone, si meraviglia della raffinatezza di arredi e decorazioni. Foto T.R. In questo contesto si inseriscono le opere di Mario Giansone (1915–1997), scultore abile e poliedrico, con tratti di maledettismo e pur capace di vivaci intrecci cromatici. Nella mostra L’armonia nascosta, curata da Marco Basso e Giuseppe Floridia, con allestimento di Studio Architettura Vairano ed un contributo di Enrico Debandi, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, si colgono i diversi aspetti del talento di Giansone: scultura, disegno, pittura e finanche arazzi si susseguono, sottolineando l’evoluzione dell’artista. Foto T.R. Il percorso proposto si snoda dagli anni Cinquanta del Novecento, a partire dallo stile sintetico che via via tende sempre più al figurativo, mantenendo comunque, anche negli anni Ottanta, le caratteristiche forme fluide ed avvolgenti, che suggeriscono il significato della realtà rappresentata seppur occultandone i dettagli. La serie di sculture Testa, principio genetico del 1948 rimanda ad una ricerca circa le origini dell’esistenza ed a culture lontane, così come La crisalide (1973), il cui titolo riecheggia il presupposto della fase adulta e che morfologicamente può apparire una citazione degli abiti marziali dell’Oriente. Testa, principio genetico - Foto T.R. In esposizione, tre delle ventidue sculture che, nello studio dell’artista, attorniavano Il decapitato, formando un’Opera Omnia, sviluppata nell’arco di trent’anni, con chiari riferimenti ad una concezione cosmologica (Universo oscuro, E fu la luce, Aggregazione della materia) e, forse, tragicamente escatologica. I gatti scolpiti nella pietra negli anni Ottanta si torcono e si allungano, come simbolo di energia vitale, superando, con la loro apparente leggerezza, la materia. Gatto? <<Principio genetico conseguenza di una decisione>> rappresenta una nascita, quasi una creazione, come accade in Orchestra jazz, 5 tempi di sviluppo, scolpita quindici anni prima. Orchestra jazz, 5 tempi di sviluppo - Foto T.R. Insieme alle donne, criptiche ed eleganti, ed alla memoria di drammatici fatti bellici, la musica è stata per Giansone una continua ispirazione, un’impalpabile essenza che lo scultore riuscì a tradurre persino con il vuoto, intagliando sagome nelle sottili sinuosità di superfici lignee (Modern Jazz Quartet, 1968) e lapidee (Il pianista, 1971). Catalogo con esaurienti saggi di Giuseppe L. Marini, Angelo Mistrangelo, Monica Pontet (Adarte Ed.) Maggio 2016 Il pianista - Foto T.R.
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